48. FUOCHI
I.
Dunque parrebbe sufficiente indossare la cotta dei pellegrini per chiamarsi pellegrino, cosicchè e sicchè lo vediamo arrancare sulle ultime erte degli angiporti di una città. Perchè ha maiali alle sue periferie, guardie alle porte e baldracche variamente acconciate, e tanto basta per chiamarla città, con le sue piccole muraglie e i suoi terrapieni, e suoi carri e i suoi polli e le sue carriole cariche di derrate piuttosto alimentari.
Il pellegrino, che s'ostina a farsi chiamare tale, varca le porte lasciandosi palpare dagli sguardi arroganti e stolidi di guardie delle Legioni di Teutoburgo, con le loro daghe scintillanti d'olio minerale. Fa abbastanza freddo da incrostare i coturni di fango gelato, ed è abbastanza tardi da vedere bruciare i primi lumi ad olio, ed è abbastanza stanco da accasciarsi nel portico del fòndaco, ansimante. Ed è abbastanza preoccupato di quel posto sconosciuto e quegli dei occhiuti dipinti alle pareti, e degli sguardi obliqui dei tagliaborse che ovunque s'incontrano nelle città dove t'arrivi tardi la sera. Ed è abbastanza convinto di proseguire ancora il suo viaggio, non ostante il ginocchio scricchioli forte nelle brume dell'inverno e la schiena si pieghi frequentemente.
L'oste immenso e barbuto viene a sincerarsi, Hai di che pagare, e glielo chiede con quell'accento sannita che hanno le popolazioni di quei luoghi inamèni. Il pellegrino risponde Ho solo otto monete di rame, e se hai modo che le ritrovi domattina avrò di che pagarti un giaciglio e lardo e pane.
L'oste guardandolo dall'alto della sua mole vastissima dice Questa è la locanda di Telèo, e qui nessuno temerà alcun male. Se hai otto monete di rame avrai un paglione, fichi secchi e vino d'Anatolia, e miele d'Aleppo, e se vorrai una donna ti laverà via il fango del cammino, e ravviverà il fuoco e se vorrai, ravviverà il tuo fuoco. Il pellegrino incastra un piccolo sorriso tra gli sparuti peli della sua barba di pellegrino e risponde piegando leggermente la testa di lato, T'abbiano in gloria i tuoi dei, e le tue donne, mi basterà il paglione e il vino e il miele e il cibo, e un barbaglio del fuoco di legna, che il mio fuoco arde altrove, ed è tutto quello che cerco, ed è tutto quello che voglio, ed è tutto quello che avrò. Perchè fino a che il fuoco arderà non temerò alcun male, anche se arderà altrove.
II.
S’accascia dunque in un angolo, il pellegrino, guardando con misto di ribrezzo e curiosità i sguerci e gli sciancati, il musico rattrappito nel suo buffo modo di musico e il mercante di zafferano, arrancato sul suo mezzo chilo di stimmi conservati nella vescica rinsecchita d’un montone. Ha la bocca impregnata del forte vino speziato – fior di cannella – e del fumo del focolare, reboante nell’ansimare contrito. Nell’impluvio acqua stagnante, resa fangosa dalla cattiva stagione, e attorno le carovane affrante di viandanti, filibustieri, pompieri e fontanieri, intenti a recuperare il poco di riposo che avanza tra il timore di risvegliarsi con un sorriso rosso sbaffato da un orecchio all’altro e la borsa tagliata e i sogni mirabolanti di chi ha consumato quasi tutti i domani.
Il pellegrino viaggia disarmato, ha solo otto monete di rame: e quelle sono, e quelle restano, per cui anche il più sordido dei lestofanti si potrà comprare un scodella di grasso e farro, al più un sorriso mercenario per una breve veglia frettolosa. Viaggia disarmato, che non v’è difesa per la paura: e la paura non è tesoro, ma è preziosa come pepite, evanescente come incenso e ruvida come il vello d’un capro. Viaggia disarmato ma non indifeso, perché il suo petto è ampio, e le sue spalle paiono polena di galera, e le sue cosce hanno nervi a fasci, e i suoi occhi vegliano. E se qualcuno gli siede vicino, i visceri gli risuonano in simpatia, come oche poco prima dell’alba in ragli di pericolo.
Perciò si giace, a fianco di uno scriba occhiuto e una coppia di giovani silenziosamente abbracciati in sospiri.
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