Bu:r in Milano. La terza vita di Eugenio Jacques Christiaan Boer
È passato qualche mese da quando mi sono chiuso alle spalle la porta - un filo catacombale - di Bu:r, il locale del barbuto cuoco Nederlanditaliano. Andammo, belli convinti, io e il Leach, e discutemmo animatamente per tutta sera di cose importanti: i tempi sul nuoto di passo, l'importanza della muta di tre millimetri in acqua libere, perchè se corri a sei minuti non si può dire che corri, e cetera. Leach è un feroce triatleta di ritorno, e segue una dieta pretermonacale di superfood, integratori e autolesionismi salutistici: ma in fondo è anche un golosone e - seppur non frequentemente - si lascia tentare da qualche escursione gurmè.
Allora - fredda la serata - ci incontriamo circospetti sulla soglia vagamente carbonara del Bu:r e dopo qualche esitazione ci appropinquiamo. Fortuna: l'antro si spalanca e compare il radioso sorriso di Simone Dimitri, Maitre e Mc, che non ci lascerà per tutta la serata.
Dicevo è passato qualche mese, probabilmente i piatti assaggiati sono cambiati, la carta l'estate il tempo l'umore di Boer hanno portato diversità ed evoluzioni nel percorso che abbracciamo, volontieri, Leach ed io.
E in fondo, non è più il tampo di scrivere con puntiglio l'infinito approfondimento del dettaglio, la nomenclatura degli ingredienti, la speleologia delle tenniche di cottura. Più interessante - qui ed ora, oggi - rievocare una generale sensazione di maturità avvicinata e raggiunta: non fosse per l'incrinatura che il carattere incontentabile di Boer potrebbe inoculare nella parola "maturità". Che di certo in questo caso non è vissuta come assestamento e consolidamento ma come acquisizione di un andare lesto e determinato finalmente raggiunto in una Casa propria.
Resta, di una galoppata eterogenea e a tratti curvilinea, il ricordo di una cucina caravaggesca in cui sono i sapore a venire scolpiti a tratti dalla luce dell'intuizione e vergati dalla consapevolezza. Chiaroscuri, non perchè l'ombra è qualcosa da temere ma perchè serve meglio a definire i volumi, a tratteggiarne la tridimensionalità.
Come quando in una melodia la pausa diviene indispensabile alla sua comprensione. Quando il silenzio diviene esse stesso musica, necessario - anche se non sufficiente - a definire l'insieme.
C'è concretezza e vezzo, c'è realismo e spettacolo, c'è una evidente tensione ad un altrove che - presumibilmente - ti attende la prossima volta.
[On Air: Black Dog, probabilmente la pausa più destabilizzante della storia del rock. https://youtu.be/fpigDGf6vXM]
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