Lopriore.
Frastornato dal diluvio di idee pensieri e retropensieri che ogni sosta al Ristorante V.ro Il Portico di Appiano Gentile mi induce, continuo a chiedermi quale sia la giusta tra le due strade: scrivere nulla, perchè di Paolo Lopriore si è scritto tanto, tantissimo, e il rischio di scriversi addosso è formidabile; oppure lasciar libri i polpastrelli di essudare parole a nastro, che qui il racconto potrebbe diventare qui un Infinite Jest.
Siedo nel tavolinetto da uno, e leggo le righe e tra le righe: oggi Lopriore Paolo manda in tavola nel consueto rotolo di carta arrotolata e legata con l’elastico un condensato di idee che pesa quanto il granito, ed è solido altrettanto. Fa sorridere la detonazione introduttiva - siamo costretti, quasi una conseguenza dell’esistere qui ed ora - se paragonata ai borborigmi latofuffistici che non raramente attraversano la narrazione gastronomica. Citazioni tirate per la giacchetta, belle parole messe in fila a confezionare il sottovuoto, luoghi comuni a sprezzo del ridicolo.
Qui invece rasoiate di lucidità spiazzante, velate di una ironia sottilissima, fredda e tagliente, che traspare solo ad una lettura meno superficiale, non appena le parole scrostano l’effimero del cibo come sintesi dell’apparenza. La Minuta, che diventa Minutina fino a tornare oggi all’essenza di pane e companatico, dice, e dice di tre episodi - non le puoi definire “portate”: forse “portati” ma non ne sono certo - che assommano lo scherzo di 35 euri all’addizione.
Nel tavolinetto da uno un vassoio grande come un campo di cricket conduce a me in capoversi separati i grissini, lo spumoso burro nocciola aromatizzato al limone e chiodo di garofano; le frittelle di carciofi “del convento” superpastellati da condire a piacere con l’emulsione di menta e miele, l’uovo all’uovo cacio e pepe. L’invito al gesto del condimento richiama non solo la tavola conviviale, la tavola di casa, la tavola dei piatti scambiati, dell’assenza di barriere tra tavola e cucina, tra dire e fare, ma mi riporta anche a certo teatro “partecipativo” degli anni settanta e ottanta, allorquando io pieno di tempo e di curiosità mi vedevo precipitato in mezzo ad attori visionari guidati da registi immaginifici, in cui la realtà in divenire era il teatro dell’accadere, del non scritto, dell’imprevisto. E qui il condire e il dire sono sovrapposti, e il mangiatore è attore e protagonista. Lo chef? Lo sceneggiatore, più che il regista.
Se ci pensi, uno dei primi cardini della rovinosa caduta degli stilemi del cosiddetto fine dining a casa Lopriore è proprio l’azzeramento del canone, a fronte della proposta quotidiana, dell’immanenza dell’oggi e del mercato che non è più un pretesto ma il contesto. Il piatto non è definito, non è finito, dove il fine è il confine, la finis terrae in cui tutto diventa evanescente, e proprio lì s’innesta il suggerimento del Nostro: metti mano, lascia che sia qualcosa che prima non c’era. L’equilibrio e l’armonia non sono un dogma ma una conseguenza del gesto: quanto miele e menta occorronno per lenire la tracotanza della pastella, l’amaricante del carciofo, il ferro latente in fondo al boccone? Un po’ di più, un po’ meno, niente. Lo chef indica la direzione, il mangiatore scrive il percorso. E si perde nella volutamente capziosa nomenclatura dell’”uovo all’uovo”, che non sai più se è una una perculatio vagamente autoinflitta, a se stesso come intermittente personaggio della rappresentazione culianaria, o un vero e prorpio calembour gastronomico con la fine che coincide con il principio. Due cucchiainate, e l’uovo è terminato, giusto il tempo per apprezzare una consistenza inebriante e una sagace e alternativa interpretazione della cacio e pepe… alla carbonara.
Hai scelto un vino dalla piccolissima carta - tre bolle, tre bianchi, tre rossi, in prevalenza di ispirazione naturalista - e ne classifichi la scelta, perchè senza dubbio alcuno di scelta si tratta: una traduzione all’oggi dell’idea del vino della casa, questo c’è e questo bevi, perchè è questo che beviamo noi ed è questo che beviamo in casa nostra. Bene? Male? Ma non è questo il tema. Ribadire a martellate - seppur intellettuali - il rigore da stilita che il deus ex machina del Portico impone al suo progetto, privo di scartellamenti, indulgenze e genuflessioni, ecco il punto. Se hai il dubbio, alza l’occhio ai martelli appesi alla parete. Idee come chiodi, conficcati nel tappeto del dubbio che deve albergare nell’universo Loprioriano. Ma quel dubbio che non è incertezza, nè in sicurezza, in quanto l’idea è clamorosamente lampare: il dubbio buono e vero che ti fa svegliare ogni giorno più curioso e che ti fa stare all'erta e attento.
Il dubbio che impone al mangiatore di armeggiare con i ravioli di pane e le vongole al naturale, sgusciate e servite a temperatura ambiente con il loro succo: per inumidire i ravioli, appena lucidati; per accogliere la staffilata dei capperi in polvere, il rosmarino e il pepe nero. E le fave? cotte tanto, in spregio - di nuovo - al modernariato ipercroccantista e più generosamente inclini alla cucina del paiolo. E ti accorgi che è solo nelle pagine scritte momento dopo momento - chissà se i fogli A4 ripiegati in quattro che sostituiscono tovagliette e tovagliolini sono anche l’invito a scrivere, con le mani - nel corso della cena. Solo un cuore di pietra, o qualcuno con un minipimer al posto dell’anima ora potrebbe scambiare la varietà che popola il tavolinetto da uno con un’accozzaglia: gli ingredienti - non è un piatto “scomposto”, che diamine - occupano lo spazio, quello metrico e quello sensoriale, obbligando a rinunziare alla fruizione passiva, costringendo a smettere di subire la tirannia del piatto come avvenimento, ma del mangiare come accadere. Un raviolo, due vongole, la polvere. Il pecorino del ripieno è sapido abbastanza da guardare in faccia il sapido delle vongole, e a esaltarlo con aromi come brezze.
È qui che comprendi quanto sia estremo il pensiero del cuoco oggi barbutissimo, barbuto di una barba da lanzichenecco. Da lanzichenecco della normalità, e fammi dire, della noia, di una gastronomia che spesso parla a se stessa e riproduce se stessa, piazzando nasturzi qua e là perchè così fan tutti. E come i lanzichenecchi si abbandonarono al più efferato sacco di Roma nel 1527, eccolo qui il Lopriore Paolo a saccheggiare la chiesa della gastronomia contemporanea, smontando le Guardie Svizzere dell’impiattamento, annichilendo la liturgia, fiammeggiando la consuetudine con una determinazione e una fame iconoclasta che non vede paragoni.
Eppure è nell’ultimo capitolo di una cena che potrebbe essere un romanzo che tutto si tiene: quando precipita sul tavolinetto da uno il finalino: sorbetto al limone tutto intero, fitto d’amaricanze gestite con il tratto del primo violino d’orchestra; l’estrazione di mandorla amara; il meno nobile dei cioccolati, quello bianco che piace ai bambini; la banalità telefonatissima delle fragole in tazza. È allora che ficcanasando tra i vari abbinamenti che ti lasci travolgere dalla consapevolezza di un progetto che solo all’apparenza è un’architettura in sottrazione, che riesce ad essere grande senza essere grandiosa: provi le coppie, questo e codesto, quello e quell’altro. E ognuna, corbezzoli, funziona. Sta al suo posto. Si ritaglia il suo angolo di mondo. Dice cose. È li per un motivo. E ti accorgi che anche quelli che avresti potuto scambiare per vezzi, per idiosincrasie, sono messaggi.
È solo al momento del conto che giunge a te il manifesto: una paginetta così densa da toccare il peso specifico del polonio a partire dal titolo, folgorante: La Nuova Concezione Ristorativa, dalla 15,45 del 3 gennaio 2017. Data e ora della rivoluzione, quando la Nuova Concezione Ristorativa “si pone al di fuori di qualsiasi tendenza schematizzabile”. Ecco, questa è la sintesi.
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