Mauro Ricciardi e l'estro spinoso
Non è un arnese da maneggiare alla leggera, il Mauro da Spezia. Lontano da ogni codice, ieri e oggi, cammina con passo ammaccato dalle cose della vita, custodendo ben riposto nel petto un fuoco. Non raro ad esplodere, che sono famose le sue sfuriate: ma deve esserci un rapporto diretto tra questo e l'esito della sua cucina. Sanguigna e passionale.
Cuoco per destino e vocazione più che per premonizione, Mauro Ricciardi è uomo da non accontentarsi del mediocre nè del medio: per nulla soddisfatto della cucina delle sue prime Tamerici prese possesso dei fornelli, all'alba di molti decenni fa, e iniziò un alacre percorso di studio e ricerca che lo proiettò ai vertici della considerazione di pubblico e critica. Vennero i riconoscimenti, e venne il simbolo stesso della gratificazione gommosa: la gerbera pneumatica appuntata sul petto da un pezzo a certificarne lo spessore.
Venne pure la Locanda dell'Angelo, del Paracucchi che fu: mitica nel disegno architettonico di Vico Magistretti ma anche innestata in una posizione assai defilata, che ispira più a sintomatici panini sotto l'ombrellone - il Golfo è a pochi chilometri - che a proiezioni esoteriche di cucina, eppure.
Una sala grande, con porte finestre ampie come campi da calcio, e il presidio di Paola: figura leggendaria di complemento e completamento del Mauro, affidabile nella sua selezione screanzata di vini soprattutto locali. Un senso di straniamento, di passeggiata nella Quinta Dimensione: tra bottiglie senza etichetta raccontati con la verve di un Bordò da collezione, e una trafila di piatti tellurici, capaci di mettere d'accordo l'integrità dell'ingrediente con lo slancio iperrelaista della creatività.
Ricciardi si fa largo nell'intero vocabolario producendo a getto continuo composizioni che paiono nate per incontro casuale, quasi degli "incidenti" gastonomici. Il lessico è sterminato, e prende a prestito con apparente leggerezza temi terricoli e marinari, li strapazza e li mette assieme a seconda dell'umore. Selvatico quasi quanto le materie che lavora - pesci di cattura, selvaggina, funghi - e irriverente ai comandamenti del garbo e della grazia, esprime nel gesto una compiutezza che sbalordisce al primo assaggio, seduce nel seguito, e irretisce al finale. Non ha paura di lavorare cose quotidiane come la mercanzia più rara, e sintetizza il sapere (e il sapore) in dipinti istintivi, generosi e privi di vezzi nello stesso tempo.
Una cucina che mette nell'angolo la velleità e il lezio per spingere forte sulle note evocative: come quella chiusura in forma di rib, scura, fiammeggiata, trattata con infinita cura ma precipitata nel piatto quasi come una coincidenza, barbabietola e la sua foglia a dichiararne l'essenzialità.
Una risorsa monumentale: spesso spigolosa e scabra, ma sempre ricca di spunti per pensare, e per gioire. Mauro Ricciardi sa ancora ridere, anche se non raramente la sua risata è venata di una caustica nota amaricante, ma è un valore intrinseco che nessuna nazione - intesa come comunità di intenti e di persone - dovrebbe disperdere. Teniamocela cara.
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