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  • Dalla Gioconda e il senso del luogo.
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Dalla Gioconda e il senso del luogo.

La sera, d’estate, la vetrata continua del locale in cima al monte di Gabicce Monte si spalanca e lascia entrare una delle più seducenti veduto del litorale romagnolo. Dall’alto la curva che lambisce Cattolica e poi Misano e poi e poi e poi è una svirgolata nera che ottunde i tappeti di ombrelloni-oni e vivifica il mare nero con i riflessi del crepuscolo. La visione struggente non fa dimenticare il magnifico terrazzo che aggetta sul piccolo borgo, fitto di verzure. 

Non è difficile vedre attraverso le luci e i brillantini dell’oggi l’antico monastero - se ne parla a partire del 900 della nostra era - o del successivo castello: poderose fortificazioni a difesa del borgo e dei territori infeudati, che non servirono a metterlo al riparo da repentine invasioni, scorrerie, saccheggi. Eppure Gabicce tutt’oggi ha una funzione altamente protettiva, per almeno due temi: il primo, la porta d’ingresso dello spettacolare Parco San Bartolo, con i suoi preziosi contenuti naturalistici, la falesia della Focara, i rari vigneti a strapiombo dove si coltivano reperti napoleonici di Pinot Nero. Il secondo, il ragguardevole patrimonio di delizia a cui si accede arrampicandosi fino alla terrazza della Gioconda. O forse dovrei dire di Dalla Gioconda, con quel bisticcio di preposizioni che mette in crisi i miei polpastrelli.

Lassù uno che di montagne se ne intende, l’abruzzese Davide Di Fabio, ha levato gli ormeggi ed ha condotto il veliero in cima al monte su rotte inesplorate in precedenza, dove il non raro stupore non è mai il sostituto di una profondità e una concretezza che lascia sbalorditi.
Da un lato, l’esattezza definitiva delle preparazioni. Dall’altro la propulsione poetica in direzione dell’inconosciuto. Il terreno minato della novità si attraversa con indicazioni prive di tentennamenti, e in poco tempo la bellezza avvolgente delle composizioni - ancora più che il singolo, prezioso ingrediente - diventa una canzone irresistibile che ti impone con fermezza di lasciarti andare. È il momento della triglia dalla sodezza imperscrutabile. O del morone, nappato al velo e vergato di un ordito irresistibile, ancora più della trama vellutata. O il devastante risotto al nero, uguale solo a se stesso e perfettamente distinto da mille consimili, fitto di brillanze sapide, amare, fresche. O l’animella, di cui altro non potrei dire che “l’animella!” o - infine - il piccione, esercizio frequentatissimo come fosse la parte di settimo grado per il free climber, che qui percorre un sentiero inedito, con l’uovo di merluzzo in crema diviene la folgore alla fine del tutto.

Ma se dovessi dire, e devo, della cosa che mi è rimasta nel cuore al primo acchito - love at a first glance - dirò del cappelletto: reggiano, reggianissimo, piccolo e con le barbette, ma con un ripieno del tutto eretico, di olive “maturate” in casa, e un brodo iconoclasta. 
Oggi la freschezza, la sobrietà, la coerenza e la continuità della cucina del ristorante lassù è qualcosa di unico, che conviene tener caro. Un piccolo, sano dono alla bellezza cha ancora resta nel nostro mondo racchio.