Dina, immaginifica cucina.
La cosa più nota di Gussago, oltre alla sua pertinace partecipazione al Lombardo Veneto, è la presenza nel comprensorio della Franciacorta. Per il resto, con tutto l'affetto per i suoi quindicimila e dispari abitanti, resta un nome sulla carta geografica. Fino a quando non compare Dina sulle mappe gastronomiche e più d'uno e più di due dicono Devi andare, e vai. Prenoti on line e Alessandro, cortesemente presentandosi, ti richiama per sapere se intolleri o se allergizzi, e per spiegarti la faccenda: che Dina è una scritta su un muro proprio in mezzo all'incrocio di due strade del paese che come accade spesso da queste parti hanno le porte direttamente sul piano stradale, marciapiedi nulli, forse una riga per terra a una spanna dal muro a farsi spazzolare i lombi dagli specchietti retrovisori di vetture sempre più grandi per strade a misura di mille anni fa.
Suonare, ti ha insegnato Alessandro, e una giovine ti viene ad aprire cordialmente, come se non ci fosse un domani senza di te. Fa bene al cuore, come il terrazzo veneziano che calpesti nella rossa sala d'ingresso, folgorata da una temibile, grande scritta al neon. Until then if not before.
Ti accompagna al tavolo dove la spiega è breve, e tu l'ascolti anche con qualche distrazione: vuoi la corsa lunga, che vuoi sapere tutto di questo Gipponi Alberto di cui si dice. Che divenne cuoco da grande, e percorre strade alternative come quando il navi si intestardisce a portarti di qua e di là. Inizio a crederci subito, quando il pairing proposto si chiama Condimenti, e il menu si chiama Impasta. E sì, c'è anche del vino ma molto altro. Quindi mi lascio trascinare, volontieri, in un nessun dove papillare che ha come riferimento mescole di acqua e farina che non è necessariamente pasta. Non sempre. E non comunque. Ma sopra tutto: non qualunque.
Per dire: non appena s'apre il sipario e la ballerina lieve si palesa in tutù e sulle punte, qui giungono le particelle elementari di tutto ciò che sta attorno, e assieme, alla pasta nell'immaginario collettivo, evocando la tradizione con un rispetto insospettato e negandola subito dopo, riconoscendole così quattro quarti di nobilità: ho amato ancor più il gesto della sensazione del ripieno dei tortellini e dei tortelli d'erbetta - ricotta e spinaci - così come il sugo di polpetta e la pasta e fagiuoli senza pasta, che da sola racchiude, racconta e sintetizza molto del perchè e del percome succederanno cose su quel tavolo.
Ora, a raccontare con le parole i tellurismi gipponiani, si commette un peccato di presunzione se non di superbia: perchè il registro del racconto è sempre un ordine di grandezza meno, ecco, grandioso dell'esperienza. Che pure è una parola consumata dal tritacarne mediatico delle reti sociali: ma impavidi ne parliamo, sapendoci inadeguati, perchè il modo corretto sarebbe andare, e provare. La bruschetta al casoncello crudo ma cotto, che arriva in una busta da copisteria, da aprire e scoprire; l'ostrica che è fatta con i risoni che sanno di ostrica e l'ostrica evocano nel tatto liscivo e nella seduzione; ma è soprattutto il Campo di Pasta, quella cupoletta fluffosa che contiene il nadir e lo zenit delle sensazioni campestri dal fieno alla camomilla e tutta l'antifona nel mezzo che il cardine, il punto focale si sposta e ti travolge, lasciandoti spiazzato come un medioce portiere ai calci di rigore.
La pasta in fusilli è servita, ma cruda, al limite della masticabilità, in tripudi di fondi e con un finto americano con l'arancia letteralmente brinata; lo storione è finalmente reso in tutta la sua magnificente carnalità - e sotto: tagliatelle di pane - e poi ancora e ancora la pasta in 3d, lo spaghettino con l'indivia gelata, il suflè, il gelato gelato...
Ti trovi ad aver attraversato l'arco costituzionale delle sensazioni, ti manca solo qualche insidia extraparlamentare: e ti trovi i passatelli freddi, in brodo di carciofo ghiacciato. Allora senza l'acidità che ti sbianca le genegive, senza l'amarevolezza che ti fa dimenticare il pranzo di Natale della nonna del '97, Gipponi ti conduce prendendoti per mano fino a quel luogo dove la bontà è liberata dalla schiavitù della piacevolezza. Per meglio dire: conduce a te la grazia scevra dell'indulgenza, della genuflessione alla soavità.
Eppure, a dispetto dei quattro fusilli e delle cucchiaiate di roba, Dina non solo ti conduce a sazietà con certo e celebrato appagamento. Ma pure ti nutre. Ti nutre di un nutrimento che oblitera la caloria come unità di misura e si piazza dietro le papille, come in una trincea ben difesa, a dire che c'è la storia e c'è la cultura: e se mai vuoi discutere con quelli che "il taglio sulla tela lo sapevo fare anche io" puoi tenere per loro da parte quel paio di casoncelli secondo canone, che Gipponi manda in tavola all'improvviso con una crema di Padano, giusto per dire: La calligrafia la conosciamo, l'abbiamo esperita ed evasa.
Ora per favore, parliamo d'altro.
Dina è sempre "esperienziale", come dicono quelli bravi...
Grazie di quello che hai scritto perché mi hai riportato da Dina e fatto rivivere le sensazioni che avevo provato mangiando da loro (ancora il vecchio menu). Grazie perché hai messo per iscritto delle sesazioni che io non sarei riuscito a esprimere a parole