Gli Intrecci di Incàlmo, estense contemporaneo
La cosa più bella accade “dopo”: quando i quattro di Incàlmo mi cingono di amichevole assedio attorno ad un tavolo quadrato, che a forza di chiacchiere e grappe e pacche sulle spalle diventa tondo e levigato.
Per una traversata di giusta misura tra piatti e bicchieri Michele e Riccardo hanno scelto profumi e sapori per intavolare storie radicatamente territoriali e nello stesso tempo larghissime di vedute e di ispirazione. Un paio d’ore a passo “ben temperato” in cui il complesso intreccio di linee che ha congiunto i due – come in effetti li congiunge – si dipana e si spiega. Tutte le tessere del mosaico vanno poi a posto con i due cuochi che si palesano solo alla fine: Francesco – “Massenz, con la zeta” – e Leonardo.
Intrecci si diceva: che Michele nasce chef, e si sposta per il mondo, sta a Londra dove incassa esperienze di cucina ma anche gestionali. Laggiù incontra Riccardo, che ha cognome italiano e mezza vita brasialiana. E poi i cuochi, compagni d’arme in cucine prestigiose, e poi anch’essi intrecciati. E alla fine Incàlmo – che in lingua veneta ha proprio un significato simile, almeno metaforicamente – diventa realtà a fianco dell’Albergo Beatrice, dove tutto nacque.
Fu il bisnonno di Michele che ben più mezzo secolo fa miscelava e vendeva collanti per piastrelle, che costruì il primo albergo di Este. Già, Este degli Estensi, quattro quarti di nobiltà e sedici di beltà, tra le mure ancora integre, turrite e forti come se il tempo fosse cosa vana a scorrere. Michele è milanese, ma sente il richiamo della terra avìta: rileva la struttura, negli anni d’oro dei grandi “ricevimenti nuziali” una macchina da soldi ma ora in periclitante declino, e la rinnova, dotandola di un bel ristorante a vista. E come nelle storie eroiche, cala la mannaia del lockdown.
“Abbiamo preso la bicicletta” dicono i quattro di Incàlmo, e lasciano per strada qualche polso e qualche clavicola: ma il locale è chiuso, che ci vuoi fare.
Quando finalmente le porte si riaprono la squadra è temprata, entusiasta, agguerrita e determinata. Ha le idee chiare sulla cucina, e inizia a mettere mano alla cantina, per donare alle carte in tavola una stretta coerenza di progetto.
In tavola, per dire, è l’elemento ludico che disegna un tenace filo rosso dallo snack di benvenuto fino al gaudioso termine in cui i cioccolatini fake di porcellana si confondono con quelli della piccola pasticceria. Si pesca in Iberia con il churro, italianizzato con una crema burro e salvia; si finisce in Campania a recupera un babà trasfigurato con liquore locale e mazzacolle. Si approccia il magnifico pane fatto in casa con burro normanno, mentre il toast di lingua salmistrata ha genetica di stretta osservanza locale con tutte le sue salse, la verde e la chiara fatta di pane. La pearà nei ricordi. Il risotto è deliziosamente cotto al punto alla maniera delle Venezie, con animelle e mosto cotto, mentre il tortello di zucca si stacca dalla maniera mantovana grazie al leggero gratin e al brodo di scorze. Quasi d’obbligo il tocco silvestre alla fine, quando la salsiccetta di cervo preparata in cucina incontra ineluttabilmente il radicchio tardivo, e la mela.
E infine anche il dessert è un gioco: carote in tre maniere, una sabbia frolla a sorreggere il gelato affumicato.
Dicevo, il meglio accade “dopo”, quando la parola “squadra” assume un senso proprio vivido e compatto. Poco più di un secolo in quattro, non c’è che dire.
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