Osteria del Sass: musica, cucina, vino e Costantino.
Costantino “Tino” Di Claudio è un uomo dalle idee molto chiare: vive per il bello, in ogni sua forma. Ancora oggi dice di sé “Sono ceramista”, al tempo presente modo indicativo, e ne dà prova con le magnifiche stoviglie che manda in tavola. Ancora oggi parla di sé come un musicista: sia per il suo passato di globetrotter di cantante prima rock, poi jazz, sia per la passione con cui segue la carriera di Arianna, la figlia cantante dotata di uno strabiliante talento.
Ma la prova provata è la progressiva trasformazione del suo ristorante, l’Osteria del Sass, in un magnifico cardine di bellezza, appollaiato com’è sul cocuzzolo più alto di Besozzo, Varese. Dall’abbagliante finestra continua che si apre si due lati dell’Osteria mostra lo sconfinato panorama. “Qui siamo tra cinque laghi” e li cita a menadito. Un po’ la vena del “secchione”, Tino, ce l’ha: studia, prova, si esercita. Non si accontenta: evolve, ascolta, riprova. Cambia: ma meglio di un secchione qualsiasi è pronto a mettersi in discussione, e a sporcarsi le mani.
I vini: li ama, da Sommelier qual è, ma prima di metterli in carta vuole andare in azienda, conoscere il proprietario, farci amicizia. I suoi martedi di riposo sono sempre in giro per produttori, le sue settimane di ferie facilmente finiscono di là dalle Alpi, nell’amata Sciampagna.
Il suo percorso è dunque atipico e in qualche modo classico nello stesso tempo: da cuoco ufficiale di gruppi musicali, amici, studenti all’idea di aprire un ristorante – 25 anni fa – con cuochi talentuosi ma dalla fugace permanenza, che pure portarono il Sass agli onori delle cronache gastronomiche per una certa qual attitudine all’avanguardia, fino all’idea di passare in cucina per direttissima. Da autodidatta, come si diceva, e innamorato del mestiere.
Oggi Il Sass unisce la modernissima veranda con le immense superfici in cristallo con i travetti di legno e le pietre millenarie – “Le fondamenta hanno 2500 anni” dice Tino – che conservano intagliate in qualche spigolo figurette antropomorfe d’epoca antica.
Ed è quasi una rappresentazione dell’idea di cucina, che unisce tecniche e tecnologie d’avanguardia con tecniche e tecnologie ancestrali, e quindi in qualche modo comunque d’avanguardia retroguardista.
Non dovrà stupire dunque il lessico di Costantino che prevede glaciazioni e sottovuoti, marinature e fermentazioni, così come braci, fumosità e fiammeggiature. Gli “gnocchi” di cedro sono l’albedo del grosso agrume trattati; la capasanta passata al kamado segue una maionese di seppia con ghiaccio di lamponi; lo sgombro è marinato. Il risotto, finalmente cotto al punto, fa all’amore con la barbabietola, mentre il raviolo azzecca lepre in salmì e ciliegie sotto spirito. La coppa di maiale piccolo passa sulla brace prima di incocciare il cappuccio fermentato alla moda dei crauti. Le radici abruzzesi per metà e lombarde per il resto completano il quadro: anzi, per meglio dire, il mosaico.
Sono parecchi i gradini da salire dal parcheggio sotto il “faro” di Besozzo, un obelisco che non potremmo collocare tra il primo milione di cose belle al mondo: ma tra dirupi e verzure, orizzonti sfugenti e tramonti lucenti, all’Osteria ci si può dimenticare delle bruttezze del mondo.
Per un istante, o per un’ora, se ti piace.
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