Paolo Lopriore, V.ro Ristorante Al Portico
Piove: forte. Eppure ciancicando con l'ombrello maltrattato e i miei ammennicoli da viaggio mi fermo a leggere l'insegna: il Portico, V.ro Ristorante. Tra le chiacchiere del dopocena ho dimenticato di chiedere allo chef appianese di meglio lumeggiare la mia curiosità e solo con una telefonata ho potuto confermare che sì, proprio come avevo pensato: significa Vero Ristorante.
In quella snobbissima, scanzonata, ironica ed autoironica abbreviazione c'è l'essenza stessa dell'oggi di Paolo Lopriore. Con le vicende del quale non stuccheremo il lettore che ben le conosce, mentre ci interessa assai di più il combinato disposto di un indubbio, esorbitante talento e una maturità che assume una forza detonante.
Ristorante Vero dunque: e trova una ragione la fierezza nemmeno celata con cui ti mostra i filetti di siluro: pesce ignavo, che chiede mano di cuoco per diventare commestibile se non addirittura buono. In questo sta la novità del Portico, più che nella survoltata diatriba delle definizioni: trattoria evoluta, trattoria moderna, ristorante. Mentre al tavolo giunge la pioggia di piccole, miracolose preparazioni da assemblare a piacere s'intona il freguntubo sulla nomenclatura, delizievole per eserciti di masturbatori di grilli. Noi ci teniamo quelle incursioni in tutte le cucine possibili, emendate dalla retorica del nonnismo e dal nostalgimo piagnone: Lopriore strapazza con amore le regole della liturgia contemporanea abbandonando l'impiattiamento, la deriva estetica, la tensione verticale, e si dedica con profitto ad una visione originale della bellezza.
In sala la mamma: che con piglio sicuro porta piatti a passo di carica, "ha visto la minuta", un pratico foglio con l'elenco delle cose che mangerai e quattro bottiglie quattro da chiamare anche al calice. E poi quanto l'amerei, solo per quella "minuta" che ne cuor mi sta.
E si pesca lì vicino: letteralmente. Il pesce del lago, cotto, poco cotto e crudo, l'orto delle suore, il verdurismo di un fornitore dietro l'angolo. L'esotismo - raro - è la polvere matcha da picchiettare a piacere, ed è un segno più che un vezzo. La cucina più che a vista è dentro la sala da pranzo: piccola ma non priva di reperti di peso. Martelli conficcati alle pareti, specchi in cornice, pezzi d'arte. La luce stessa è un gesto lo-fi, senza tecnoilluminismi e contrasti scultorei.
Il meno per il meglio, una forza sottile, un recupero di energia a valore aggiunto. Il chiaro desiderio di mettere cuoco e Ospite uno a fianco dell'altro, in mutuo sostegno. "La materia è quello che c'è. Il resto, lo deve fare il cuoco." Storia e sapienza in una frase, amen.
Così semplice, così profetico.
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